Nei vari podcast che oggi vanno tanto di moda, molti giocatori NFL spesso chiedono a colleghi o ex-colleghi se credono che una persona comune, uno come noi, potrebbe mai guadagnare una yard in una partita o, addirittura, guadagnare un first down con un passaggio.
Non nascondiamoci dietro a un dito: ce lo siamo chiesto tutti, e tutti, con poca cognizione di causa e tanta arroganza, abbiamo risposto “beh, cosa vuoi che siano poi dieci yards”.
Dietro a una risposta del genere c’è poca onestà intellettuale e ancor meno prove tangibili a sostegno della nostra tesi, prove che con molta difficoltà saremo mai in grado di reperire.
Tuttavia, un bel po’ di anni fa, qualcuno questa domanda se l’è posta con più serietà, e ha voluto provare sulla propria pelle cosa volesse dire trovarsi tra le trenches con in mano una palla da football.
Paper Lion è un romanzo scritto da George Plimpton nel 1965. Plimpton è stato un pioniere del giornalismo partecipativo, ossia di quell’interpretazione del giornalismo – sportivo, in questo caso – che nasce dall’esperienza per via direttissima di ciò di cui si scrive.
Qualche anno prima dell’avventura raccontata in Paper Lion, Plimpton aveva avuto la possibilità di fare da pitcher in una partita della post-season MLB tra la American League e la National League. La sua esperienza di un giorno tra i professionisti del baseball sarebbe stata l’argomento del suo libro Out of My League (1961).
Vivere un giorno da professionista, tuttavia, non era abbastanza. Certo, aveva vissuto in prima persona l’emozione di lanciare nello Yankee Stadium davanti a migliaia di persone, ma ai fini giornalistici un paio d’ore sul diamante avevano un valore limitato.
È per questo motivo che, dopo aver preso qualche porta in faccia, nel 1963 Plimpton riesce a convincere il direttivo dei Detroit Lions a includerlo nel training camp estivo tenuto annualmente a Cranbrook come last string quarterback – da qui il “sottotitolo” del libro.
Non è questa la sede per concentrarsi sulla trama di un romanzo che, per buona parte della sua durata, è un ritratto delle diverse personalità che Plimpton ha conosciuto nella sua esperienza in Michigan – tra questi nomi il leggendario Night Train Lane, al cui simpatico personaggio è dedicato un intero capitolo di aneddoti dentro e fuori dal campo.
Quello di cui voglio parlare è il modo in cui Plimpton porta il lettore a immergersi nella sua esperienza tra i professionisti, in un ambiente in cui la sua intraprendenza – e, mi permetto di dire, incoscienza – lo aiutano a non sentirsi fuori luogo, per quanto ovviamente lui stesso non si illuda mai di potersi anche solo paragonare ai giocatori che si trova attorno. Questa presa di coscienza passa anche attraverso una sorta di welcome to the NFL moment ante litteram che travolge Plimpton in uno scrimmage ufficiale tra l’attacco e la difesa, evento culminante dell’esperienza dello scrittore sul campo con la maglia azzurro-argento dei Lions. È qui che la narrazione di Plimpton smette di essere giornalistica e diventa romanzesca, per quanto sempre autobiografica e aderente alla realtà.
C’è infatti una netta distinzione tra i toni piatti e descrittivi che l’autore usa per raccontare gli episodi abitudinari che scandiscono le sue giornate nel camp e la voce più evocativa che pervade la narrazione quando questa si sposta all’interno del gridiron. È qui che, sulle pagine del libro, si materializza l’esperienza che tutti noi saremmo curiosi di vivere in prima persona se non fosse per il fatto che difficilmente ne usciremmo tutti in un pezzo. Plimpton, pur essendo giornalista, non finge mai di essere un narratore asettico e distaccato dagli eventi che lo circondano – questo viene attestato anche dal sopracitato “sottotitolo” del libro: Confessions of a last string-quarterback. È proprio questo che fa Plimpton: confessa. Confessa le emozioni che lo sovrastano nel momento che segue lo snap, quello che con una bellissima espressione definisce sudden perfection out of chaos, un’improvvisa perfezione che nasce dal caos.
L’altro racconto che attecchisce nella memoria e nel cuore del lettore dopo aver chiuso per l’ultima volta il libro è quello umano. Oggi siamo più abituati a “conoscere” le persone che stanno sotto ai caschi e alle protezioni grazie ai social media, a foto, video, interviste e documentari. Dubito, però che i tifosi di sessant’anni fa potessero dire lo stesso. È questo il punto di forza di Paper Lion: non vuole raccontare le gesta atletiche che già al tempo costellavano giornali, riviste e programmi televisivi, ma bensì l’umanità che traspare dagli scambi di aneddoti nelle minuscole camere di Cranbrook tra una partita di carte e l’altra; dall’immagine dello scultoreo Night Train Lane sdraiato su un letto sicuramente troppo corto per lui che ascolta un quarantacinque giri di Dinah Washington, sua moglie; da Harley Sewell – guardia pro-bowler – che il giorno dopo la disfatta di Pontiac carica Plimpton in macchina per portarlo a fare colazione con un gruppo di amici perché da serate tanto avvilenti ci era passato anche lui, come chiunque altro in quello spogliatoio. Quella stessa umanità che emerge dalle lacrime di chi, dopo sole tre settimane di training camp, si sente strappare la terra da sotto i piedi quando un membro del coaching staff gli comunica con aria mesta che è stato tagliato.
Plimpton riesce benissimo nell’obiettivo che si era preposto: raccontare non solo l’esperienza sul campo da gioco che ogni tifoso appassionato vorrebbe poter vivere almeno per una manciata di secondi, ma anche le mille sfumature che dipingono il ritratto di questi supereroi dei quali il grande pubblico non conosce altro che le imprese sportive.
Trovo che per un appassionato di letteratura sportiva Paper Lion sia un testo imprescindibile. Non solo, vista l’età, è un’importante testimonianza di un NFL che ancora non conosceva il Super Bowl, ma dal punto di vista più prettamente letterario assolve allo scopo fondante del romanzo: ci permette di vivere una vita che non è la nostra, almeno per qualche istante.