La rinascita di Motor City: I Detroit Lions di Dan Campbell

Come tutte le cose, anche l’NFL si è evoluta nel tempo. Il gioco del football americano è cambiato, sono cambiate le sue regole e le filosofie, sono cambiati i modi di insegnarlo e il modo di giocarlo. Sono cambiate le squadre, le loro città, i loro colori. Se prendessimo il filmato di una partita NFL degli anni ’50 per proiettarlo in parallelo a un all-22 dei giorni nostri quasi faticheremmo a credere che stiamo guardando lo stesso sport.

Nel cuore di un mondo in continua evoluzione, tuttavia, c’è sempre qualcosa che rimane costante. Nel caso dell’NFL possiamo pensare all’amore dei tifosi, alle emozioni che questo sport magnifico è in grado di trasmettere, o più semplicemente allo spirito di una squadra che, dagli anni ’30 a oggi, non ha cambiato filosofia, non ha cambiato città, non ha cambiato colori. Una squadra senza tempo che, per quanto si orni di tutti quegli orpelli che caratterizzano il football americano del ventunesimo secolo, ha sempre tenuto fede alla propria identità, un’identità d’altri tempi segnata dal lavoro duro, dalla disciplina, dall’orgoglio per le proprie umili origini. Origini ben radicate nel nord della nazione, nel freddo di quella che per antonomasia è la città dei lavoratori, il cuore dell’orgoglio automobilistico americano. Una città popolata da quelli che negli States sono chiamati “colletti blu”, blu come il leone che si staglia sui caschi argento che dal 1934 non hanno mai cambiato colore: quelli dei Detroit Lions.

L’idea di scrivere su Detroit mi è venuta leggendo Paper Lions, romanzo pubblicato nel 1965 da George Plimpton, giornalista sportivo che per poter raccontare al meglio l’esperienza dei giocatori NFL del tempo è riuscito a convincere il coaching staff dei Lions a metterlo a roster per una stagione come terzo quarterback.

L’energia che permeava i Lions di Night Train Lane e che oggi alimenta la squadra di Dan Campbell è la stessa: la fame degli underdog unita allo spirito lavoratore di Motor City; quell’entità astratta che i giovincelli di oggi definirebbero “aura”, termine che mi sembra molto una divertente moda passeggera ma che al contempo trovo descriva alla perfezione i nuovi – ma non del tutto – Detroit Lions di cui ci stiamo innamorando.

I Lions, si sa, non sono esattamente la franchigia più blasonata della lega. Non solo non hanno mai vinto un Super Bowl, ma sono anche l’unica squadra dell’attuale NFC a non averne mai giocato uno. A questo si aggiunge una delle peggiori percentuali di vittorie all-time dell’NFL e una presenza ai playoff che con un eufemismo si potrebbe definire esigua (basti pensare che Mahomes ha giocato più partite ai playoff di quelle che i Lions hanno disputato dal merger del 1966 in poi). L’avvento di Barry Sanders prima e di Megatron e Stafford poi li ha sì portati a giocare qualche partita in gennaio, ma senza mai collezionare una vittoria a eccezione del Divisional del 1991.

La squadra che Dan Campbell si è ritrovato in mano nella primavera del 2021 era una squadra sulla soglia di una rebuild viscerale. La trade di Stafford ha messo fine a un’era che, per quanto priva di vittorie significative, aveva visto passare per Detroit uno dei più grandi ricevitori della storia e quello che è stato indubbiamente il suo miglior quarterback di sempre, nonché uno dei giocatori più significativi della storia sportiva della città.

Quali sono, allora, le fondamenta da cui ripartire nel momento in cui ci si ritrova da un giorno all’altro con un nuovo Head Coach – per fortuna – e un nuovo quarterback?

I media americani si concentrano spesso su entità eteree da loro inventate per nutrire le narrazioni di cui noi tifosi non possiamo fare a meno (se potessimo, questo sito non esisterebbe). Ogni tanto, però, ci azzeccano. Uno di questi concetti astratti di cui spesso sentiamo parlare è quello di culture, la cultura intrinseca nel DNA di una squadra, ed è innegabile che un fenomeno simile sia parte integrante di molte realtà in NFL. E’ un misto di filosofia di gioco, di scelte riguardo ala costruzione del roster, ma anche di qualcosa che è davvero intangibile. E’ una questione di identità. Ma un’identità ha bisogno di un uomo in carne e ossa che la difenda e la infonda in chi gli sta intorno, e la dirigenza dei Lions non poteva fare una scelta migliore di Dan Campbell.

E’ indubbiamente da lui che questa squadra nasce ed è a lui che fa ritorno. Fuori Stafford, dentro Campbell. Un degno passaggio di testimone da un leader dentro al campo a un leader fuori dal campo. Un uomo che si presenta ai media dicendosi pronto a strappare rotule a forza di morsi è la personificazione dello spirito di una squadra che affonda le sue radici nel freddo nord degli Stati Uniti, nella città operaia per eccellenza.

Tuttavia, MCDC – Motor City Dan Campbell – non può portare avanti la baracca da solo. Servono i giocatori, e ne servono tanti, visto lo state delle cose in quel di Detroit.

Year #1: Una nuova alba su Detroit

Nei tre draft che separano l’assunzione di Campbell dalla storica playoff run conclusasi con la finale di conference di quest’anno, i Lions hanno completamente rivoluzionato il loro roster. E’ vero che Roma non fu costruita in un giorno, ma come abbiamo detto Detroit è una città di lavoratori infaticabili, e non è servito molto tempo per gettare le fondamenta della squadra di Dan Campbell. Nel primo draft post-Stafford, i Lions hanno ben pensato di draftare quelli che oggi sono indubbiamente i loro due giocatori più importanti nel reparto offensivo. La scelta di Penei Sewell al primo giro era praticamente obbligata: un OT dall’atletismo inspiegabile per la stazza che mette in campo, pro-bowler predestinato e nuova colonna portante di quella che oggi è una delle migliori linee offensive della lega. Il vero colpo da novanta, però, Detroit l’ha fatto andando a scovare nel cuore del quarto giro Amon-Ra St.Brown, il suo futuro WR1. Nel giro di due giorni – al tempo inconsapevolmente – Detroit si è accaparrata due giocatori che nel giro di pochi anni si sono affermati come la crème de la crème nei rispettivi ruoli.

Il primo anno dei Lions di Campbell, tuttavia, non ha portato i risultati sperati. Tra prestazioni altalenanti di Goff e una squadra ancora dilaniata dalla mancanza di pezzi cruciali, i Lions chiudono la stagione con sole tre vittorie e il morale decisamente a terra.

Ma Roma non fu costruita in un giorno.

Year #2: Motor City Native

Detroit si presenta al draft 2022 con la seconda scelta. In una draft class insolitamente povera di QB (basti pensare che per trovare l’unico vero talento da starter bisogna andare all’ultima scelta) la bagarre per il prestigioso titolo di prima scelta assoluta è tra due defensive end: Travon Walker e Aidan Hutchinson. I Jaguars, che per il secondo anno di fila hanno il primo pick, scelgono Walker. I Lions dovranno accontentarsi di Hutchinson: col senno di poi il miglior giocatore del draft.

Se Dan Campbell è l’incarnazione dello spirito dei Lions sulle sideline, Hutchinson è la sua controparte in mezzo al campo. Nato in Michigan, cresciuto in Michigan, ha giocato a Michigan sotto Harbaugh per poi approdare, ovviamente, a Detroit, Michigan. Ho già detto Michigan? Nei suoi primi due anni Hutchinson si afferma come una delle migliori defensive end della lega, diventando subito il punto di riferimento di una difesa ancora lacunosa, ma sicuramente in crescita.

In una stagione iniziata senza troppe pretese e continuata peggio, i Lions danno quantomeno il sentore di aver trovato la strada giusta da percorrere. Arrivata al giro di boa con un disastroso record di 1-6, Detroit ospita gli eterni rivali di Green Bay.

Spesso e volentieri basta davvero poco per cambiare la stagione di una squadra. E spesso e volentieri basta una stagione raddrizzata a metà percorso per cambiare il futuro di una franchigia.

Ancor più spesso è una singola giocata a cambiare il corso di una partita.

Si può dunque dire che, per uno strano e iperbolico effetto farfalla, una sola giocata può cambiare il futuro di una franchigia? Non sono in grado di rispondere a questa domanda, ma so di per certo che da qualche parte si deve iniziare. Roma non fu costruita in un giorno, ma di certo c’è stato un momento in cui qualcuno ha posato la prima pietra.

Quarto & goal, LaFleur disegna una one-read-play per Bakhtiari, Rodgers gioca la play action, si gira, lancia –

Sei 1-6 in stagione, i tuoi avversari storici arrivano in casa tua, su 4° down disegnano una giocata per un lineman e a intercettarla nella endzone è la difensive end intorno alla quale hai costruito il tuo ultimo draft.

Se la mia squadra dovesse ripartire da una singola giocata per provare a raddrizzare settant’anni di sconfitte, vorrei che fosse questa.

Rodgers lancerà un terzo intercetto – ne aveva già lanciato uno, sempre nella endzone, su un rimbalzo sfortunato della palla – e i Lions vinceranno 15-9.

Una giocata per cambiare una stagione; i Lions vincono 6 delle successive 8 partite.

Arriva week 18. Alla vigilia della partita i Lions avevano una speranza di andare ai playoff: se Seattle avesse perso contro i Rams, Detroit sarebbe stata padrona del proprio destino. Purtroppo per i Lions, però, Seattle riesce a strappare il suo biglietto per la postseason con una sudatissima vittoria all’overtime.

L’ultima partita della stagione, dunque, non ha alcuna implicazione per i Lions; anzi, le menti più maliziose potrebbero pensare che una sconfitta sarebbe il miglior esito, in ottica draft.

Ma l’ultima partita della stagione è una visita a Lambeau Field, nell’ultima di Rodgers a casa sua con la maglia dei Packers. Con una vittoria, Green Bay va ai playoff per un’ultima disperata corsa all’anello sotto la guida del suo leggendario quarterback. I Lions, dalla loro, possono porre fine alla carriera di Rodgers in quel di Green Bay con una sconfitta in casa che farebbe definitivamente svanire nella neve il sogno di poter rincorrere il secondo anello in maglia giallo-verde.

A volte il football si racconta da solo, senza che si riveli necessario andare a scavare negli annali della lega in cerca di strane connessioni utili a creare narrazioni forzate.

Con poco meno di 4 minuti rimasti nella sua carriera a Green Bay, Rodgers lancia una palla disperatissima su 3&10 per provare a guadagnarsi almeno un’altra partita con la maglia che ha indossato per più di 15 anni.

Com’è ironico il football, a volte. Riguardo alla prima partita del 2022 tra Lions e Packers mi sono concentrato solo sull’intercetto di Hutchinson ai danni di Rodgers. Il quarterback di Green Bay, tuttavia, di intercetti in quella partita ne ha lanciati tre. I due che non ho menzionato portano entrambi la firma dell’ennesimo rookie che ha rivoluzionato il roster di Detroit, Kerby Joseph.

Indovinate nelle mani di chi è cascato l’ultimo passaggio della carriera di Rodgers con la maglia di Green Bay?

I Lions non strappano il biglietto per i playoff, ma al netto di questa delusione concludono la stagione nel miglior modo possibile.

Year #3: I Re Del Nord

Eccoci alle soglie della stagione 2023. I Lions hanno sì draftato bene negli ultimi due anni, hanno indubbiamente trovato una loro identità sotto la guida carismatica di Dan Campbell, ma manca ancora il tassello più importante del puzzle: i risultati.

Il terzo e ultimo – per ora – draft di questo ciclo dei Lions non ha sicuramente nulla da invidiare ai suoi due predecessori. Se nel primo draft dell’era Campbell l’uno-due Penei Sewell/Amon-Ra St.Brown aveva rivoluzionato l’attacco, quello successivo aveva iniziato un lungo e ancora interminato lavoro di ristrutturazione della difesa con la coppia Hutchinson/Joseph (menzione d’onore in questa draft class anche per Jameson Williams, ricevitore preso al primo giro da Alabama che, purtroppo, tra infortuni e provvedimenti disciplinari ha iniziato la sua carriera solo verso la fine della scorsa stagione, facendo capire da subito perché è stato scelto nella prima ora del draft).

Impossibile che per il terzo anno di fila i Lions riescano ad azzeccare due scelte di questo livello.

E invece.

Con due delle sue prime tre scelte Detroit prende un runningback e una tight end, occupandosi così delle due skill position che nell’era Campbell non erano ancora state “rattoppate”. Se Jahmyr Gibbs era un primo giro predestinato – per quanto in pochi l’avessero dato nella top 15 – la vera perla i Lions l’hanno pescata il secondo giorno di draft, quando a inizio secondo giro hanno scelto Sam LaPorta, tight end, ovviamente da Iowa.

Come rivoluzionare una squadra in 3 anni.

Con una difesa ancora non perfetta ma più matura e completa, e con un attacco fantasioso, esplosivo e, come direbbero gli americani, “elettrico”, i Lions fanno innamorare tutti i tifosi delle altre sette divisioni.

Nel 2023 Goff vive una seconda primavera, forte di una linea offensiva tra le prime della lega – guidata, ovviamente, da Sewell – e di weapons a destra e a manca: Gibbs e Montgomery sono forse il miglior runningback-duo dell’NFL, LaPorta sembra il fratello minore di George Kittle e infrange qualunque record possibile e immaginabile per le rookie tight end, e Amon-Ra si conferma essere – a mio modesto avviso – un pericolosissimo pretendente alla discussione intorno ai top 5 ricevitori della lega senza la quale sembriamo non poter vivere. Un roster così talentuoso, tuttavia, si dimostrerebbe abbastanza sterile senza la guida di uno dei coach dalla personalità più forte in NFL, sia dentro che fuori dal campo.

La minaccia di mordere rotule e quant’altro fatta tre anni fa, infatti, si è dimostrata essere tutt’altro che vana – per quanto, per fortuna, metaforica. I Lions costruiscono il loro gioco su un’aggressività che ben si rispecchia nelle parole usate dal loro Head Coach nella sua conferenza d’esordio: quarti down da posizioni improbabili del campo, trick plays degne del miglior Andy Reid e tentativi da due punti al limite della testardaggine (vedere il controverso caso della partita con i Cowboys).

La stagione di Detroit inizia come tutti ci saremmo aspettati (ndr): con una vittoria ad Arrowhead contro i Chiefs freschi di Super Bowl. Neanche a dirlo, questa prima vittoria – sulla cui falsa riga i Lions costruiranno il resto della stagione – arriva anche e soprattutto grazie alla giocata di un rookie che alla sua prima partita in NFL mette in saccoccia un pick-6 su Mahomes. Un esordio come un altro, insomma.

I Lions mettono il pilota automatico e dominano la divisione dall’inizio alla fine, nonostante qualche scivolone – come il massacro subito da Baltimore e le due sconfitte contro i rivali divisionali di Green Bay e Chicago – e al netto dell’ottima seconda metà di stagione messa in piedi proprio dai Packers, i quali sembrano aver trovato il loro terzo franchise quarterback consecutivo.

Dopo più di 20 anni senza vincere la divisione, i Lions finalmente spezzano la ruota, e Dan Campbell – pur non facendo Stark di cognome – viene incoronato Re del Nord, preparandosi a condurre i suoi in una playoff-run che profuma già di storia.

La prima partita della postseason è il ritorno del figliol prodigo, la tipica narrazione intorno alla quale l’NFL ha costruito il suo essere: i Rams approdano a Ford Field sotto il comando di Stafford, il più grande quarterback della storia dei Lions, un uomo che per Detroit ha sputato sangue e versato lacrime senza mai riuscire a vincere in gennaio.

E’ ironico che la prima vittoria in postseason nella storia di Force Field arrivi proprio contro chi a quel campo ha dedicato anima e corpo.

Come è ironico che la seconda partita ai playoff si disputi contro una squadra che ha vissuto un’esperienza diamtralmente opposta a quella di Detroit: se da una parte i Lions hanno fatto piazza pulita e ricostruito in tre anni un’intera franchigia, i Bucs sapevano di essere a un quarterback di distanza dall’essere davvero competitivi dopo che il GOAT aveva appeso la maglia al chiodo.

Goff contro Baker è la battaglia degli ex numeri 1 che avevano solo bisogno di una seconda possibilità. Quella di Baker l’ho raccontata qui.

Giunti quasi al termine di questo racconto lungo tre anni, non dovrebbe stupire che una partita di quest’importanza venga decisa proprio dalla giocata di chi ha fatto parte, per quanto in sordina, del primo draft di questi nuovi Lions, quello da cui tutto è nato. Derrick Barnes non aveva ancora messo a referto un intercetto nei suoi tre anni di carriera in NFL. Ha deciso di iniziare nel miglior momento immaginabile.

Non tutti i racconti, purtroppo, hanno un lieto fine.

Nel conference game a San Francisco i Lions vanno sopra di 17 annullando virtualmente ogni tentativo di muovere la palla da parte dei 49ers e facendo girare la testa a una delle migliori difese della lega.

Le partite, però, si giocano in due tempi.

I Lions sembrano non tornare in campo dopo l’intervallo, e i 49ers segnano 27 punti consecutivi senza che Detroit riesca a fare nulla al riguardo. Alla fine di ogni stagione una sola squadra festeggia, mentre le altre 31 si leccano le ferite. Forse era troppo presto perché Detroit potesse essere quella squadra. Nella partita con San Francisco, insieme a tutte le cose belle che i Lions avevano fatto vedere già in regular season, sono emersi anche i limiti di una squadra che, proprio sul più bello, si è dimostrata essere un po’ acerba per il momento che si trovava a vivere. Questo non vuol dire che il 2023 dei Lions sia stato un fuoco fatuo, tutt’altro, ma Roma non fu costruita in un giorno, e neanche Detroit.

La miglior stagione di sempre dei Lions termina sì con una sconfitta che lascia molto amaro in bocca, perché Detroit era a quattro punti da giocarsi il primo Super Bowl della sua storia, ma quest’epilogo porta con sé anche tanto entusiasmo e fiducia in futuro che, per la prima volta in trent’anni, sembra essere ben delineato.

Perché il Nord è ancora dei Lions, e l’aria a Detroit, per quanto fredda, è cambiata.