“Houston, we (don’t) have a problem”: La Rookie Season di C.J. Stroud

Mi sono sempre piaciuti gli “underdog”, quei giocatori che vengono ritratti come sfavoriti, come meno talentuosi dei prescelti amati dal grande pubblico. 

Sono capaci tutti a tifare per i migliori, per i più forti, per quelli baciati dal sole – parole ipocrite scritte da un tifoso Chiefs, ma non è colpa mia se mi sono avvicinato all’NFL nel periodo del Covid, quando si parlava solo di loro.

Stravedo per giocatori come Joe Burrow e Trevor Lawrence, primi pick annunciati a 365 giorni di distanza, ma non riesco a immedesimarmi, ad affezionarmi profondamente. Hanno già tutto, perché dovrei?

Mi è molto più facile simpatizzare per un giocatore come Tua, linciato mediaticamente dal giorno uno per la sua stazza, per i suoi limiti fisici, per il suo non essere la tipica personalità che i media americani osannano a prescindere da tutto e da tutti.

Con uno dei più grandi atti di maniavantismo della storia recente dico già che il quarterback che supporterò di più tra quelli di questo draft è Michael Penix Jr. Comodo tifare per i top 3 che tutti danno già come future superstar. 

Che poi, chiamare Penix e Tua “underdog” è tutto un programma: uno ha vinto il National Championship e l’altro ci è andato molto, molto vicino. Però ecco, mi piacciono quei giocatori che hanno la cosiddetta chip on their shoulder, quel motivo in più per avere il dente avvelenato e voler dimostrare quanto valgono.

C.J. Stroud è, a mio avviso, un esempio perfetto di questo tipo di giocatore. 

Talento stellare e numeri straordinari a Ohio State ma, nonostante tutto, alla vigilia del draft la narrativa intorno a lui ha iniziato a prendere delle pieghe strane.

Questo principalmente per due motivi: il primo è la storia non brillante dei quarterback di Ohio State in NFL. Negli ultimi anni l’università di punta dell’Ohio ha prodotto una quantità ragguardevole di talenti in molte altre posizioni, soprattutto nel reparto wide receiver – tra questi Michael Thomas, Terry McLaurin, Chris Olave, Garrett Wilson e Marvin Harrison Jr, uno dei migliori prospetti di sempre in questa posizione – causando così una sorta di “inflazione percepita” per quanto riguarda i suoi quarterback.

Per farla più breve: a lanciare la palla a quei nomi lì, sono capaci tutti.

Basti pensare che alla vigilia della stagione appena finita Justin Fields era considerato dai più il miglior quarterback NFL sfornato dai Buckeyes in tutta la loro storia.

Il secondo motivo dietro ai dubbi sorti intorno a Stroud poche settimane prima del draft è stato il suo risultato nell’S2 Cognition Test – esame pensato per valutare la capacità di un quarterback di processare informazioni – nel quale C.J. ha ricevuto una valutazione di 18/100.

I suoi colleghi e compagni di draft hanno messo a referto punteggi che vanno dal 79% di Anthony Richardson al 98% del primo pick overall Bryce Young, risultati che in linea di massima rispecchiavano il loro draft stock

Alla luce di questi numeri, tra molte voci autorevoli nel mondo della NFL si è creata una narrativa che vedeva la valutazione di Stroud ridimensionarsi, almeno in parte. 

Fortunatamente per i tifosi Texans, il GM Nick Caserio non ha dato ascolto a queste voci e con la seconda scelta assoluta ha selezionato il giovane quarterback di Ohio State, andando a chiudere quello che col senno di poi è stato uno degli uno-due più letali nella storia del draft facendo trade up per prendere la terza scelta assoluta e accaparrarsi Will Anderson Jr. 

I due futuri rookie dell’anno, uno dopo l’altro.

Ora, evito qualunque paragone con i suoi due compagni di primo giro, visto che Anthony Richardson si è distrutto la spalla in week 5, chiudendo così in anticipo la sua prima stagione, e Bryce Young si è ritrovato a giocatore in una squadra nella quale chiunque farebbe fatica, figuriamoci un QB “undersize” come lui.

Per fortuna la stagione di Stroud è molto facile da valutare in valori assoluti, senza doversi per forza lanciare in voli pindarici pur di inventarsi i termini di paragone più disparati come si è soliti fare nell’universo sportivo, soprattutto oltreoceano: il nuovo quarterback dei Texans ha infatti giocato quella che è probabilmente la miglior rookie season di sempre per un quarterback, paragonabile forse solo all’anno di debutto di Cam Newton e, secondo alcuni – dai quali mi discosto – di Big Ben.

4108 yards, 23 touchdown e 5 intercetti sono numeri senza senso per un rookie.

Soprattutto se si considera che ha fatto tutto ciò sotto la guida di un rookie head coach che arriva da un background interamente difensivo – sia come giocatore che come coordinatore – e con un corpo ricevitori che a inizio stagione era privo di giocatori di rilievo.

Nella cultura generale del football uno dei grandi discrimini tra “buoni quarterback” e “grandi quarterback” è la capacità di un giocatore di elevare i propri compagni. 

Basti pensare a leggende come Marino, Brady, Manning, o per prendere casi più contemporanei è sufficiente guardare il corpo ricevitori con cui Mahomes ha vinto gli ultimi due Super Bowl.

Ho parlato di inizio stagione non perché i Texans abbiano acquisito in corso d’opera delle superstar, ma perché, come i grandi quarterback, Stroud è stato in grado di elevare i giocatori intorno a lui.

Il suo miglior ricevitore è stato Nico Collins, che nei suoi primi due anni a Houston aveva messo insieme un gran totale di poco più di 900 yards e 3 touchdown. Con Stroud, in sole 15 partite, Collins ha racimolato 1300 yard e 8 touchdown. 

Il secondo violino dell’orchestra di Stroud è stato indubbiamente un altro grande colpo dei Texans nel draft 2023, Tank Dell, rookie preso al terzo giro che in 11 partite ha messo a referto 709 yards e 7 touchdown prima di rompersi il perone a inizio dicembre e veder così finire in anticipo la sua stagione di debutto nella lega.

Mi piace raccontare il football, piuttosto che analizzarlo, (cosa che, anche volendo, non ho le competenze di fare nel dettaglio) e il racconto di C.J. Stroud va ben oltre la mera analisi statistica di numeri che, già presi da soli, riassumono il talento di un giocatore che molti – me compreso – hanno con impazienza inserito nella loro top 5 dei quarterback della lega.

Sul campo da gioco Stroud ha già le movenze di un veterano: processa le informazioni pre e post-snap con una velocità che poco ha a che vedere con il risultato di un test dall’ormai dubbia validità. La capacità con cui manipola le difese con lo sguardo, creandosi finestre di lancio laddove non dovrebbero essercene è segno di una maturità che un rookie non dovrebbe avere, così come lo è la poise – la calma – con cui si muove nella tasca senza mai farsi prendere dal panico e ignorando completamente la pressione avversaria (basti vedere la sua performance nell’esordio ai playoff, in cui la pass rush di Cleveland ha più volte vinto gli 1v1 contro i tackle senza però mai riuscire a influenzare veramente i lanci di Stroud).

Ma quello che davvero colpisce di lui è la naturalezza con cui fa tutto questo. Che sia nella tasca o che stia improvvisando per sfuggire alla pressione avversaria, Stroud lancia la palla da football come se questa non fosse altro che un prolungamento del suo braccio fino all’istante in cui la lascia andare con una delle release più belle in circolazione. Con il più semplice schiocco del polso – o, per usare il termine “tecnico” inglese, flick of the wrist – la palla esce dalle sue mani con un’eleganza e una cattiveria che lasciano quasi ipnotizzati e rendono difficile credere che stiamo parlando di un ragazzo reduce dalla sua prima stagione tra i pro.

Per raccontare il diamante che i Texans hanno pescato in Ohio nulla è meglio delle immagini, e per capire di cosa parlo basta guardare i due touchdown lanciati in week 4 contro Pittsburgh, tanto per iniziare.

Il primo arriva su un’RPO che può sembrare banale, ma sulla quale Stroud lancia dal backfoot un cioccolatino tra le mani di Nico Collins sfruttando benissimo la leverage generata del suo ricevitore ai danni del cornerback – altra qualità nella quale Stroud eccelle.

Il secondo è un lancio che va fatto vedere nelle scuole di football in tutto il mondo, non tanto per la palla di per sé – che tuttavia segue una linea dipinta alla perfezione a pochi centimetri del casco del fantasma di Patrick Peterson – ma per il footwork di Stroud nella tasca, pura poesia in movimento: 3-step-drop, hitch, riassetto, boom. Una giocata in cui c’è tutto C.J. Stroud. 

Così come c’è tutto C.J. Stroud nei due touchdown lanciati contro Arizona o nel missile terra-aria sganciato nel cielo di Indianapolis sul primo snap offensivo nell’ultima giornata di regular season. 

In NFL si parla spesso di eye test – l’esame dell’occhio – quando ci si allontana dalle statistiche per affidarsi a qualcosa di più pragmatico: ciò che si vede in campo con i propri occhi. Ecco, ritengo che questo primo anno di Stroud la dica lunga su quale dei due test – quello dell’occhio, e quello che ha sostenuto prima del draft – sia più attendibile per valutare un giocatore. Se volete giudicare con i vostri, di occhi, vi basta guardare l’ineffabile prestazione messa in piedi da Stroud in week 9 contro i Bucs, partita che riassume perfettamente la stagione senza senso del rookie di Houston: 470 yards (record per un rookie), 5 touchdown e 0 intercetti con un game winning drive orchestrato in 40 secondi scarsi e conclusosi con l’ennesima palla nella endzone per Tank Dell a 6 secondi dalla fine. 

Forse definire underdog un giocatore come Stroud solo per la narrativa creatasi intorno a un test dall’opinabile serietà è un’esagerazione, ma se quel punteggio di 18 su 100 è diventato il sassolino nella scarpa che l’ha portato a giocare una rookie season di questo livello, allora consideratemi fautore di questo genere di esami.  

La storia in NFL di C.J. Stroud è la storia di un giovane quarterback che nel giro di poche settimane ha preso in mano le redini di una squadra nei confronti della quale nessuno nutriva grandi aspettative, per trasformarla in una delle favole più belle di questa stagione. Ora la favola è diventata una realtà ancora tutta da scrivere, e trovo che non sarebbe utopistico pensare che il prossimo capitolo di questa storia possa concludersi a gennaio ben inoltrato.

O forse anche più tardi, nel profondo sud della Louisiana.